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Descrizione
Qal’at al-far, in arabo “fortezza del topo”, latinizzato e trasformato nel corso dei secoli in Catalfaro. Stiamo parlando di un monte, nell’entroterra del paesino di Mineo in provincia di Catania, costituito da una sporgenza vulcanica di rimpetto alla valle dei Margi.
Ci si domanda ancor’oggi quale sia stato il motivo perché tale monte abbia assunto proprio questo curioso nome, ma la questione perde la sua risposta nella notte dei tempi più remoti, così tanto remoti, che probabilmente non forniranno mai alcuna soluzione. A me piace pensare che la “fortezza del topo” non sia altro che un riferimento al particolare profilo che il rilievo assume se lo si guarda da una certa angolazione, per l’esattezza da nord-est, in quanto esso è suddiviso in due distinte cime: una rocca rocciosa (la testa), dal profilo irto e spigoloso ed un pianoro leggermente arcuato (il dorso), entrambi separati da una sella terrosa.
In questo particolare toponimo, ciò che certamente attira di più l’attenzione è il termine Qal’at, il quale sta ad indicare una rocca facilmente difendibile o una fortezza; in Sicilia, infatti, monti toponimi, soprattutto di molte città odierne, hanno come radice inflessioni del tipo: Calta, Cala e Calat; citiamo ad esempio: Caltanissetta, Caltagirone, Calatafimi, Calatubo, Caltavulturo, etc. Probabilmente il ricordo più indelebile del popolo arabo, che qui dominò dalla IX sec. al XI sec, è proprio la diffusa toponomastica ad essi riferibile, in quanto non conoscendo la lingua greca dei bizantini, per potersi orientare nei territori conquistati, furono costretti a rinominarli. Ancora oggi se riguardiamo le carte geografiche in dettaglio della Sicilia, è molto facile riscontrare come tantissimi nomi di contrade abbiano chiare origini arabe.
Non è un caso, dunque, che proprio questo monte abbia assunto il termine arabo di rocca, infatti, oltre alle sue spiccate proprietà strategiche, sulla cima si rinvengono i resti di un piccolo fortilizio affogato nella folta ed intricata vegetazione.
Il fascino di recarsi sul posto, allo scopo di visitare tali ruderi, era troppo irresistibile e a causa di questa indole non trascorse molto tempo prima di poter organizzare una spedizione per documentare questa particolare meraviglia del tempo.
In una mattina di novembre, inaspettatamente sciroccosa, decidemmo di esplorare il M. Catalfaro e di trovare i resti della fortezza. Un piccolo sentiero s’inerpicava lungo e silente sul fianco del monte e forniva certamente un comodo mezzo per raggiungere l’irta cima, mentre alcune masserie abbandonate facevano la loro comparsa ancora umide della rugiada notturna. Lì, vicino a dove lasciammo le auto, si stagliava una piccola sporgenza rocciosa calcarea piena di aperture, erano le tombe preistoriche di contrada Porrazzelle che esplorammo successivamente in quanto strettamente legate agli insediamenti siculo-greci di Catalfaro.
Il sentiero che percorrevamo era ciò che rimaneva dell’antico accesso al monte, probabilmente esistente già in epoca medievale e che permetteva, non solo di raggiungere la cima, ma anche di collegare le vicine contrade a sud, anticamente abitate.
Arrivati sulla sella del monte, procedemmo a destra verso l’estremità della rocca lavica; un bellissimo panorama, aperto sull’ampia valle dei Margi, faceva bella vista in quelle prime ore del mattino, creando un forte contrasto con le rocce vulcaniche. In alto, tra la vegetazione, iniziammo a scorgere con palpabile emozione i primi frammenti del muro della secolare fortezza.
Attraversammo la sella, esattamente lì dove fu rinvenuto un cimitero arabo durante le indagini archeologiche effettuate nei decenni passati, qui, infatti, furono scoperte tre sepolture terragne, due delle quali contenenti resti umani che indicavano una deposizione secondo il rito islamico, ovvero, con il corpo e la testa rivolti verso sud-est, quindi verso la Mecca. La terza sepoltura, che conteneva l’inumato in posizione sdraiata e le braccia incrociate sul petto, era di rito cristiano.
Superata la sella, iniziammo la salita che fu presto interrotta solo per il rinvenimento casuale di numerosi cocci di ceramica preistorica sparsi lungo il sentiero, in molti casi questi mostravano decorazioni a bande nere, certamente associabili alla cultura castelluciana dell’antica età del bronzo, mentre, ancora più in alto iniziavano a comparire cocci invetriati tipici del basso-medioevo.
Dopo pochi passi, ecco innanzi i ruderi abbandonati del castello, quasi sommersi dalla vegetazione selvatica. A fatica riuscimmo a scorgere le strutture che furono portate alla luce dagli archeologi: un edificio rettangolare dai muri molto spessi, lungo ben 24 metri e largo 6, suddiviso in due vani, il secondo dei quali contenenti una cisterna di forma anch’essa rettangolare. All’esterno, addossata al bastione, trovava posto una rampa d’accesso con una scalinata monumentale ad un probabile piano superiore; è piuttosto plausibile pensare come l’edificio fosse più ampio e forse tutta la rocca era circondata da un muro di cinta che garantiva protezione alla popolazione del borgo in caso di pericolo.
Se ripensiamo però agli arabi emerge un dilemma, infatti, dagli ultimi scavi, non è emersa alcuna testimonianza (ad eccezione delle tombe islamiche) di una frequentazione del sito in epoca araba e normanna, in quanto tutti gli indizi raccolti indicano che il castello fu eretto nel periodo svevo. Inoltre sono ancora vaghe le indicazioni sull’abitato medievale. Il vicino pianoro reca evidenti testimonianze della presenza di un villaggio preistorico e di una conseguente fase greca, mentre nel periodo romano e alto-medievale si ha una notevole regressione.
I misteri permangono, così come l’evoluzione di tutta l’area del monte che a quanto pare sembra nascondere ancora molti segreti sotto il suo spesso strato di terra, probabilmente c’è da aspettarsi un borgo indigeno con strutture abitative arcaiche greche molto simili all’insediamento di Castiglione a Comiso, mentre l’insediamento medievale potrebbe svilupparsi attorno al castello all’interno di una cinta muraria, ancora parzialmente indagata.
Chissà se un domani, valenti studiosi, aiutati da altrettanti valenti amministratori, potranno condurre delle campagne di scavo nell’area tanto da poter ricostruire una parte importante della storia del territorio di Mineo, prima che i tombaroli, così come già stanno ampiamente facendo, distruggano ciò che è rimasto.
A noi poveri contemplatori del passato e della storia, non ci resta che obliarci nella quiete di queste rovine ad ammirare quel paesaggio perduto nei secoli, assaporando tali lontane solitudini che trasudano da queste terre così dimenticate e lasciando che l’occhio di una macchina fotografica ne trasmetta i silenzi carichi di bellezza.
Testi di Diego Barucco
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Storia
La prima testimonianza del sito, inteso come abitato, è registrata nella bolla papale di Urbano II del 1093 che include Catalfaro all’interno della diocesi di Siracusa. Un altro documento più tardo fa riferimento proprio al castello che viene ceduto ad un certo Jean d’Ailly intorno al XIII sec., esattamente nel periodo in cui si ritiene che le strutture visibili siano state edificate.
Indirizzo: Monte Catalfaro
Facilities
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